2018- L’incontro e lo spettacolo teatrale

Voci Contro. Donne che si ribellano alla ’ndrangheta

Crimini, interessi economici, connivenze, legami con la politica. Questo e molto altro sono le mafie, ma non solo.

Essere mafioso significa anche vivere in un orizzonte culturale dove valori, rapporti tra le persone, priorità seguono codici precisi: l’onore, il rispetto, l’appartenenza, l’ubbidienza, il silenzio. Tratti costitutivi che nel mondo della ’ndrangheta si uniscono ad una rigida cultura patriarcale e maschilista che ha dato origine ad un universo rigido, in cui ruoli e comportamenti sono fissati e dove esiste uno stretto legame tra la cosca e la famiglia di sangue.

La donna nella famiglia di ’ndrangheta
Questa stretta corrispondenza dà alle donne dei clan un ruolo fondamentale: consapevoli o costrette, sono loro la cinghia di trasmissione della cultura mafiosa, sono loro che, attraverso l’educazione dei figli, danno continuità al sistema, sono anche loro che considerano sacro il codice dell’onore e non temono di chiedere la morte come risarcimento ad un lutto subito.
In questo vengono pienamente riconosciute, ma restano comunque prigioniere di logiche che le relegano ad essere figure “inferiori”. Non possono affiliarsi, il loro matrimonio è spesso stabilito da altri con logiche di scambio, le proprie scelte sono pesantemente condizionate. E nulla cambia nel caso in cui vengano chiamate a prendere le redini del comando se il marito è arrestato o ucciso: pur essendosi improvvisamente ritrovate protagoniste di un mondo che le aveva escluse, sono rimaste strumenti in mani altrui, utilizzate per necessità.

Ribellarsi alla ’ndrangheta
Rispetto alle donne, alla loro vita quotidiana il potere mafioso cosa nega? Nega di poter vivere, di poter fare, di amare. È un potere che condiziona le scelte, i desideri, i sogni, che controlla la dimensione quotidiana dello star bene.
Opporsi a tutto questo richiede una forza enorme, ma qualcosa si sta incrinando: impercettibili cambiamenti, importanti se si tiene conto di quanto siano granitiche le organizzazioni mafiose. E le protagoniste sono inaspettatamente anche le donne di ’ndrangheta.
Sino a tempi recenti di fatto le uniche che si ribellavano erano quelle alle quali era stato ucciso il marito, il figlio, un parente stretto. Ci sono oggi donne che indipendentemente dall’aver subito un grave lutto, iniziano a guardarsi intorno con occhi diversi per capire se si può sperimentare un tipo di relazioni nuove con l’esterno, pensando in particolare ai propri figli. C’è chi, pur scegliendo di non collaborare con le istituzioni, intraprende un percorso personale che aiuta a prendere le distanze, a guardare alla vita ed alla società in modo diverso.
Un percorso in ogni caso doloroso che va testimoniato e raccontato.

Dalla parte dei minori
Voltare le spalle al clan è un atto di ribellione fortemente sanzionato a volte con la morte, ma anche solo pensare di dare una prospettiva diversa ai propri figli sottraendoli alla legge familiare è una scelta che non può essere accettata.
In entrambe i casi, infatti, significa infrangere il codice, mettere in discussione l’immagine di compattezza che il clan deve ostentare all’esterno e soprattutto essere un modello per altre donne.
Ma c’è chi lo fa comunque pensando ai figli, accettando anche la possibilità di separarsene nella speranza di un futuro per loro diverso.
Di fronte alla domanda di aiuto delle donne di ’ndrangheta quali sono le possibili risposte? Chi chiede di poter cambiare senza scegliere di collaborare dove trova ascolto?
L’esperienza di Libera e il percorso “Liberi di scegliere” intrapreso dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria sono un contributo in questa direzione.

 
Sabato 24 febbraio 2017 – ore 17

Ingresso libero sino ad esaurimento posti

Casa della Memoria – via Confalonieri, 14  Milano

Partecipano:

  • Ombretta Ingrascì (Università di Milano) su “Educazione ’ndranghetista”
  • Sabrina Garofalo (Centro di Women’s Studies Milly Villa, Unical) su “Ribellarsi alla ’ndrangheta. Storie di donne testimoni e collaboratrici di giustizia”
  • Enza Rando (Ass. “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”) su “Accogliere la domanda di aiuto delle donne di ’ndrangheta. L’esperienza di Libera”
  • Patrizia Surace (Tribunale dei Minori di Reggio Calabria) su “Dalla parte dei minori. Percorsi di recupero per i figli di ’ndrangheta”

Coordina Martina Panzarasa (Università di Milano)

Segue Aperitivo

ore 20:30Spettacolo teatrale “Pi Amuri” della Compagnia del Bivacco

“Il nostro desiderio è quello di dare voce ad alcune storie che accadono in silenzio ma sono potenti. Lo scenario che fa da contesto è quello della mafia, ma le storie che vogliamo raccontare parlano principalmente di coraggio.
Il coraggio di alcune donne che si sono ribellate prima di tutto a una sopraffazione, a una violenza e poi al potere mafioso; si sono ribellate nonostante i lutti e l’omertà da cui erano circondate.

A Rita Atria – Rita (Partanna 1974 – Roma 26 luglio 1992) è figlia di don Vito Atria e sorella di Nicola Atria, mafiosi. Per amore della giustizia diventa testimone con Paolo Borsellino, riuscendo a rinnegare le sue origini mafiose. A Rita, perché solo chi vive da morire non muore mai.

Nel nome di Piera Aiello – Piera (Partanna 1967) moglie di Nicola Atria, sceglie di collaborare con Paolo Borsellino, credendo insieme a lui che il profumo più buono sia quello della libertà. Per amore della figlia ha scelto di vivere nascosta ma libera. Nel suo nome, perché ha scelto di rinunciare alla sua identità.

Il canto di Saveria Antiochia – Saveria (Torino 1921 – Roma 2011) è la madre del poliziotto Roberto Antiochia, ucciso a Palermo da sicari di Cosa Nostra insieme a Ninni Cassarà nel 1985. Ha dedicato la sua vita a tenere vivo il ricordo del figlio, ha raccontato di lui e ha parlato di legalità ai giovani. La sua voce, per amore della verità, è diventata un canto contro l’ingiustizia. 

Per Lea Garofalo e Denise Cosco – Perché sono state l’origine e la ragione del nostro lavoro.
Lea (Petilia Policastro 1974 – Milano 2009), compagna di Carlo Cosco e sorella di Floriano Garofalo, boss di Petilia Policastro, è testimone di giustizia, vittima della ’Ndrangheta qui a Milano. Nonostante le difficoltà, ha scelto di collaborare con la giustizia per amore della figlia Denise.
Denise (Petilia Policastro 1991) per amore della madre ha avuto la forza e il coraggio di testimoniare nel processo contro il padre, accusato dell’omicidio di Lea. È stata sostenuta nella sua azione da ragazze e ragazzi liceali e universitari di Milano”